La manifestazione “Non una di meno” è il punto di partenza di un percorso -ambizioso, comune e partecipato dai femminismi italiani- finalizzato alla realizzazione di un Piano D’Azione Nazionale Femminista contro la violenza maschile sulle donne. Prossima tappa l’8 marzo per lo sciopero globale delle donne.
Sabato 26 novembre sono partita da Piazza della Repubblica per arrivare a Piazza San Giovanni insieme a duecentomila persone che hanno sfilato a Roma contro la violenza di genere condividendo lo slogan: “Non una di meno”.
La realtà dell’attivismo che è sceso in piazza ha dimostrato che la violenza maschile sulle donne non viene più considerata un problema esclusivamente femminile, di cui solo le donne devono farsi carico, ma un problema culturale ben più ampio, di cui l’intera società deve ritenersi responsabile. Aspetti legati all’omosessualità, alla disabilità, al superamento del binarismo di genere fanno infatti parte del programma che si vuole portare avanti comprovando che la direzione del femminismo è sempre più intersezionale.
Eravamo davvero marea anche se la maggior parte delle testate giornalistiche ha fatto finta di non accorgersene. Come riportato nel comunicato stampa diffuso dall’organizzazione:
Perché i telegiornali oscurano la manifestazione delle donne?
“Il TgUno, che appena il 25 novembre condannava la violenza sulle donne, ieri sera ha intervistato solo la Ministra Boschi e poi, come per caso, è stata data la notizia che migliaia di donne avevano sfilato a Roma per dire no alla violenza.
RaiDue ha mostrato un papà con un bambino sullo sfondo del Colosseo e della manifestazione, sembrava una festa per famiglie.
La7 non si è accorta di niente.
E allora si pone un problema di democrazia e rispetto delle leggi.
Non accettiamo più che i governi non agiscano da subito per contrastare il femminicidio, che si chiudano i Centri Antiviolenza, che non si faccia prevenzione, educazione, formazione. Volete un’altra manifestazione, più grande? Noi abbiamo le ragioni urgenti, l’energia e la rabbia per farla.”
Eravamo tutt* carich* dopo la grande partecipazione al corteo e gli otto tavoli di lavoro dell’assemblea nazionale che si sono tenuti il giorno seguente hanno beneficiato di questa enorme energia.
I TAVOLI
https://nonunadimeno.wordpress.com/portfolio/27nov/
“Piano Legislativo e Giuridico
Una diffusa cultura sessista ostacola l’accesso delle donne alla giustizia, reso ancora più difficile dall’attuale organizzazione degli uffici giudiziari e dei servizi territoriali. Permangono una serie di criticità che sono il risultato della proliferazione d’interventi legislativi, affidati alla decretazione d’urgenza che hanno reso manifesta l’inefficacia dell’inasprimento delle pene quale strumento di contrasto alla violenza di genere. L’effettività del quadro legislativo esistente è compromessa dall’assenza di specializzazione di tutti gli operatori coinvolti, dalla mancanza di coordinamento tra il sistema penale, civile e minorile e dalla non tempestività della risposta delle istituzioni. È urgente quindi una riflessione tra operatrici del diritto circa lo stato attuale delle norme e la loro concreta efficacia nel contrasto alla violenza. I principi della Convezione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica), si scontrano, nella pratica, in ambito penale, con la mancata applicazione delle misure cautelari, l’inadeguatezza della tutela processuale delle vittime/testimoni; lo scarso riconoscimento degli strumenti risarcitori; in ambito civile, con provvedimenti in materia di affidamento dei figli minorenni che non tengono conto della violenza assistita e di misure volte a garantire la sicurezza dei minori nell’esercizio del diritto di visita.
Lavoro e Welfare
In Italia le lavoratrici percepiscono, mediamente, 3.620 euro lordi l’anno in meno dei lavoratori. La differenza percentuale dei salari è dunque del 10,9%. Differenza che cresce enormemente con il livello d’istruzione: lavoratrici laureate percepiscono un salario minore del 36,3%. Secondo una ricerca Istat di qualche anno fa, sono 1 milione 224mila le donne tra i 15 e i 65 anni che hanno subito molestie o ricatti sessuali nell’arco della loro vita lavorativa. Un dato pari all’8,5% delle lavoratrici attuali o passate, incluse le donne in cerca di occupazione. A tutto ciò si aggiunge la precarietà dilagante imposta dalle ultime riforme del mercato del lavoro, il Jobs Act in particolare: piena liberalizzazione del contratto a tempo determinato (senza causale); dequalificazione del contratto di apprendistato; eliminazione dell’articolo 18 e contratto a tutele crescenti; voucher e stage non retribuiti come forma predominante del lavoro giovanile, sostenuti dalla retorica e dal ricatto della formazione continua. Così come la completa assenza di un welfare universale (e non solo assicurativo, legato al rapporto di lavoro), capace di porre argine alla strutturale intermittenza lavorativa e di garantire l’autonomia delle donne. Obiettivi del tavolo saranno dunque: approfondire e aggiornare il tema delle molestie/violenze sessuali sul posto di lavoro. Condividere strumenti, giuridici e pratici, di mutuo sostegno e di auto-difesa; censire i processi d’intensificazione dello sfruttamento del lavoro delle donne e il rapporto tra questi e il peggioramento della salute riproduttiva; approfondire il nodo della disparità salariale, con riferimento privilegiato alle tante forme di lavoro precario, esternalizzato, sotto-pagato, gratuito (dalla para-subordinazione alle false partite Iva, ai voucher, agli stage e tirocini non pagati, ecc.), il salario minimo europeo come misura per combattere la sotto-occupazione e il dumping salariale; qualificare l’insufficienza delle politiche di sostegno alla genitorialità. Definire le alternative concrete: riduzione dell’orario di lavoro e part-time volontario; rifinanziamento dei servizi pubblici per l’infanzia; politiche capaci di riconoscere forme di affettività non tradizionali; reddito di base e welfare universale per una campagna politica contro il ricatto imposto dal welfare italiano ancora selettivo-particolaristico, familistico, corporativo.
Educazione alle differenze, all’affettività e alla sessualità: la formazione come strumento di prevenzione e di contrasto alla violenza di genere
Obiettivo del tavolo sarà delineare insieme le linee e le strategie più efficaci per la prevenzione e il contrasto alla violenza maschile sulle donne a partire dalla scuola e dall’università con l’obiettivo di definire un piano nazionale femminista contro la violenza. Si diventa donne e uomini attraverso un processo di socializzazione e negoziazione che si costruisce e continuamente si trasforma intersecando al dato biologico e alle modificazioni del corpo gli stimoli, le norme e gli stereotipi veicolati dalle culture di appartenenza. Per millenni la differenza sessuale è stata significata e ordinata dentro un sistema binario e gerarchico a dominanza maschile che ha prodotto leggi, religioni, costumi, struttura sociale: una cultura organica e coerente in ogni suo aspetto caratterizzata da un potere asimmetrico tra i due generi giustificato da una presunta inferiorità femminile. Nata in conformità con la caserma e le sue logiche, la scuola ha subito tra gli anni Sessanta e Settanta un processo di trasformazione in senso democratico, ma ancora oggi sembra essere poco permeabile alle elaborazioni teoriche e alle pratiche messe in essere dalle donne nel riattraversamento critico della cultura maschile e maschilista. All’interno di questo scenario dunque va analizzato il ruolo della scuola pubblica, senza alcun dubbio luogo in cui il processo di costruzione di sé avviene sistematicamente ogni giorno sulla base di modelli ben precisi. La discussione si svilupperà a partire da alcune domande: quali elementi compongono una strategia educativa efficace per il contrasto alla violenza contro le donne? Formazione di insegnanti ed educatrici/ori, educazione alle relazioni di genere, educazione sentimentale/affettiva, educazione sessuale, revisione dei curricola, nuovi programmi che diano spazio e valore alla esperienza storica e culturale delle donne e che contrastino il sessismo presente nella lingua italiana, revisione dei libri di testo. Quali punti sono imprescindibili? Come si integrano tra di loro? Quali destinatari/e di questa strategia educativa? Insegnanti, dirigenti, studenti e studentesse, le famiglie? Con quali ordini di priorità? Come organizzare e garantire la continuità dal nido alla formazione universitaria? Chi dovrebbe attuare l’educazione alle differenze, all’affettività, alla sessualità tra il Miur, le scuole, i centri anti-violenza, le associazioni, le asl, le università? Come si va a sistema, e con quale formazione che garantisca un reale approccio trasformativo di genere in tutte le discipline? Il comma 16 della L.107/2015 (Buona Scuola); il Piano nazionale antiviolenza contro il femminicidio (L.119/2013): quali leggi servirebbero?
Femminismo migrante
Cos’è per noi il femminismo migrante? Non una definizione identitaria ma un percorso di ridefinizione continua e di riconoscimento reciproco. Le declinazioni della violenza maschile nelle vite delle donne migranti vanno dalla sottrazione dei documenti alla privazione delle libertà, ai matrimoni forzati, fino ai delitti d’onore. Il tavolo si pone di esaminare tutti i fondamentalismi, costruire un approccio interculturale laico e di genere, ragionare su un asilo “di genere”, costruire un percorso di sostegno per le donne affinché la violenza maschile presente nelle loro storie sia riconosciuta a tutti gli effetti dalle commissioni territoriali.
Sessismo nei movimenti
Se non partiamo da noi stesse/i e dalle contraddizioni che ci pervadono, come possiamo pensare di trasformare e sovvertire ciò che ci circonda? Questo tavolo si propone di elaborare strategie di prevenzione e gestione, rispetto alle violenze e alle discriminazioni che si verificano nei nostri ambiti, aprendo discussioni collettive e riconoscendo legittimità politica a questi temi, costruendo e condividendo pratiche, pensieri, strumenti. Mettersi in gioco e confrontarci in una elaborazione, per creare cultura e reti di solidarietà e per combattere sessismo, violenze e discriminazioni nei contesti politici, attraverso gli strumenti di narrazione/autoinchiesta nelle relazioni in luoghi misti, sarà il nostro obiettivo.
Diritto alla salute sessuale e riproduttiva
Libertà di scelta, diritto alla salute, autodeterminazione in ambito sessuale e riproduttivo, sono i temi intorno ai quali vorremmo far ruotare la discussione nel tavolo sul diritto alla salute sessuale e riproduttiva, con un doppio obiettivo: da un lato, la scrittura di un capitolo del Piano femminista contro la violenza sulle donne e, dall’altro, organizzare momenti di mobilitazione per i prossimi mesi nei vari territori sul tema dell’autodeterminazione dei corpi e delle scelte. Discuteremo su come combattere la privatizzazione e l’aziendalizzazione della sanità e denunciare l’insufficienza e l’inadeguatezza dell’offerta sanitaria pubblica, che porta a carenze di personale e risorse a qualsiasi livello di assistenza per le donne, i/le bambin* e adolescenti, oltre che alla precarizzazione delle vite e dei contratti lavorativi del personale sanitario. Affronteremo il problema dell’obiezione di coscienza, che ormai ha quasi svuotato di senso la legge 194, sia per quanto riguarda il diritto all’aborto sia per la contraccezione di emergenza; di garantire la possibilità di ricorrere all’IVG farmacologica eliminando l’obbligo del ricovero ospedaliero; combattere la violenza ostetrica che le donne subiscono prima, durante e dopo il parto, in un Paese in cui la scelta di non diventare madre è socialmente condannata, così come quella di esserlo è medicalmente dominata. Inoltre affronteremo il tema sui modi per garantire la salute sessuale e riproduttiva e combattere la violenza attraverso progetti di promozione della salute, prevenzione ed educazione sessuale ed affettiva nelle scuole, favorendo un clima di accoglienza, aperto e sicuro, nel quale la convivenza con le differenze possa essere vissuta come valore per contribuire al benessere psicofisico delle singole persone e alla coesione partecipativa della collettività. E su come creare servizi e una cultura della salute sessuale che non siano eteronormati, che tengano conto e rispettino la specificità dei corpi trans, che non intervengano imponendo il binarismo maschio/femmina ai corpi intersessuali e che contemplino progetti di prevenzione sessuale per lesbiche e gay, intervenendo anche nella campagna per la depatologizzazione della transessualità e per la sua eliminazione dal DSM.
Narrazione della violenza attraverso i media
Da anni le associazione femministe e singole attiviste e giornaliste denunciano come la narrazione tossica dei media contribuisca, in modo rilevante, ad una costruzione sociale della violenza contro le donne che la neutralizza, la giustifica, la sostanzia: impiego di frame narrativi che legano la violenza all’amore romantico e ne giustificano i presupposti culturali; deresponsabilizzazione degli autori di violenza, colpevolizzazione e rivittimizzazione delle donne in tutti i media di informazione; cronache costruite sempre dal punto di vista maschile che si ostinano a descrivere i femicidi come eventi isolati e non parte di un un fenomeno strutturale e di un continuum di violenze; estetizzazione della violenza nelle pubblicità commerciali; campagne sociali incentrate sulla vittimità della donna e l’essenzializzazione della violenza; processi mediatici sulle abitudini sessuali delle vittime; sensazionalismo e sovraesposizione delle violenze esercitate da uomini migranti, delle violenze più efferate e di quelle contro donne giovani. Una politica di rappresentazione straordinariamente coerente tra i diversi mezzi, canali e linguaggi comunicativi, che costruisce inevitabilmente l’immaginario sociale a disposizione per pensare e per dire la violenza maschile contro le donne. È merito delle nostre lotte se tanto è cambiato anche dal punto di vista comunicativo, se è passato il concetto che la violenza si consuma in casa e in famiglia, se il termine femminicidio è diventata di uso comune, se si sono attivate alcune riflessioni tra giornalisti, pubblicitari e comunicatori. Ma nell’acquisizione da parte del sistema mediatico mainstream i nostri contenuti, percorsi, pratiche e la radicalità politica che li contraddistingue vengono normalizzati, distorti, strumentalizzati, sempre in chiave emergenziale, securitaria, razzista, di pinkwashing. In questo tavolo faremo il punto sulle analisi dei meccanismi discorsivi con cui i media rappresentano la violenza maschile contro le donne, rifletteremo sugli stereotipi che emergono spesso nel nostro stesso modo di fare comunicazione, analizzando i diversi tipi di linguaggi: dalla pubblicità, alle fiction, all’informazione tout court attraverso stampa, tv, web e radio. Condivideremo buone pratiche comunicative, cercando di capire modalità di narrazione che nelle diverse professionalità, dal pubblicitario al giornalista, dovrebbero essere indicati in un possibile Piano antiviolenza femminista che sia teso a contrastare la rivittimizzazione mediatica, fissando punti di partenza su cui continuare a discutere nei prossimi mesi per inventare insieme nuove narrazioni.
Percorsi di fuoriuscita dalla violenza
In questo momento storico nel quale in tanti si propongono per occuparsi di contrasto alla violenza e per sostenere percorsi di autonomia delle donne, forte è il tentativo di neutralizzare ed istituzionalizzare gli interventi. Diventa importante quindi che la voce e l’esperienza dei Centri Antiviolenza si differenzi e si ri-affermi con forza e chiarezza una lettura ed un approccio femminista consolidati in decenni di sostegno diretto alle donne, di ricerca e pratiche politiche. La convenzione sulla violenza contro le donne del Consiglio d’Europa (Istanbul, 2011) chiarisce perfettamente la dimensione “strutturale” della violenza maschile contro le donne. Oltre l’accoglienza c’è un grande progetto politico: i centri antiviolenza non sono un mero servizio pubblico neutro, sono luoghi in cui si costruiscono saperi, progettualità, competenze. Sono “laboratori sociali” in cui si sperimentano relazioni virtuose e azioni di prevenzione e formazione attraverso interventi locali e territoriali mirati. Sono il motore di cambiamento di una cultura che ancora genera e giustifica la violenza maschile contro le donne. Il ruolo cardine è svolto dall’operatrice di accoglienza con il suo percorso specifico tra impegno politico e competenza professionale. Nella realtà della crisi che ci attraversa, tra precarietà generalizzata, decremento del sistema integrato dei servizi, assenza di finanziamenti adeguati e certi ai Centri Antiviolenza, i percorsi di autonomia delle donne sono sempre più a rischio.”
Vi riporto la mia esperienza di partecipante al tavolo:
Lavoro e accesso al welfare
Si è partiti dal concetto della femminilizzazione del mercato del lavoro intesa non come maggiore presenza delle donne, quanto piuttosto come riduzione del lavoro nel suo complesso alle condizioni di precarietà, gratuità e natura suppletiva a quello maschile.
È vero che, come recita lo slogan: “La famiglia patriarcale può fare tanto male”, e dopo decenni di partecipazione significativa al mercato del lavoro possiamo aggiungere che anche: “Il lavoro patriarcale può fare tanto male”, pertanto nasce la necessità di abbattere le roccaforti su cui si fonda:
-eliminare le differenze salariali. Non esiste una sola ragione accettabile per cui una donna debba guadagnare nel nostro paese in media il 10% in meno del collega maschio;
-abbattere gli ostacoli agli scatti di carriera e consentire alle donne di occupare posizioni di vera leadership secondo modelli di potere femminile che non scimmiottino quelli maschili. Negli interventi si è parlato di come il sistema delle carriere delle donne in molte realtà professionali sia fortemente limitante della libertà personale o che proponga una sostituzione di oneri dalle “ricche” alle “povere”. Si è fatto l’esempio dell’America in cui alcuni grandi studi legali stanno pagando i benefit alle professioniste con ovuli congelati e madri surrogate;
– sradicamento del concetto di maternità come esclusione dalla vita lavorativa e rivendicazione di una legge sulla paternità obbligatoria;
-lotta al mobbing. Si è parlato del dato sconcertante che vede in Italia 1,2 milioni di donne che hanno denunciato ricatti e/o violenze sessuali sul lavoro;
–riforma del welfare che si fonda oggi sul pilastro del familismo;
-erogazione di un reddito di autodeterminazione universale e possibilmente europeo che possa garantire indipendenza e dignità anche in ottica lungimirante, partendo dall’assunto che la domanda di lavoro è destinata a diminuire come risultato del processo di robotizzazione (rivoluzione 4.0).
Negli otto tavoli tematici si è tracciato un percorso che sarà ripreso in due date: una prossima assemblea di due giorni (il 4 e 5 febbraio, molto probabilmente a Bologna), e uno sciopero globale delle donne per l’8 marzo che riprende lo spirito e la lettera della proposta lanciata dalle donne argentine e latinoamericane lo scorso 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza di genere. Secondo alcune si tratterà di una nuova «Internazionale femminista» che vuole riempire di senso un 8 marzo diventato rituale.