Immagine, corpo e il suo nutrimento: su questi tre pilastri si fonda il processo creativo di Nehra Stella, artista, madre e videomaker queer residente a Berlino. Attraverso la cinepresa, la macchina fotografica, la scrittura e la performance, Nehra racconta il genere, l’identità, l’orientamento e la sessualità da un punto di vista ironico, erotico, femminista e queer. E nel mezzo delle attività di preparazione di Xplore Rome 2018, ci concediamo il piacere di staccare per un momento di riflessioni franche, qui e ora, per me e per chi leggerà questa intervista.
1 – Roma, Parigi e Berlino sono rispettivamente le città in cui sei nata (confermi?), ti sei formata e attualmente vivi. Quali stati l’animo ti suscitano queste “signore” del vecchio continente?
Stati d’animo molto contrastanti.
Sono nata a Roma, che è la città che odio di più al mondo, perché per me non ha nessuna delle qualità che io amo in una città: come la multiculturalità, la libertà nelle scelte di vita, negli orari, la varietà delle offerte culturali; mentre ha vari aspetti che odio, come le macchine e il traffico.
Parigi è la mia casa, il luogo dove ho vissuto la parte più formativa della mia vita.
Berlino è il mio grande amore, dove ho finalmente incontrato la mia tribù.
Mi spiego: sono nata a Roma, ma la mia famiglia è toscana, non religiosa e con una mentalità più aperta della norma. Sono cresciuta con l’idea di non appartenere al luogo in cui mi trovavo e con la sensazione di essere straniera. Il mio aspetto di bambina “nordica“ ha accentuato il contrasto con le mie origini e il mio carattere ribelle e il mio temperamento “Gender-Free“ hanno determinato un conflitto molto violento fra me e Roma e l’Italia in generale.
Partire molto giovane è stata la mia salvezza, quasi un’esigenza di sopravvivenza: sono scappata alla ricerca del mio mondo, perché non riuscivo ad adattarmi alla realtà Italiana, alla cultura dominante, conservativa, cattolica, omofoba e maschilista. Ho sempre rifiutato gli stereotipi di genere e non ho mai accettato di identificarmi con il ruolo riduttivo e subordinato che viene assegnato alle femmine in Italia. Fin da piccolissima, mi sono sempre ribellata e scontrata con tutti i valori comuni; ricordo la mia infanzia come una lotta continua con maestre, professori e con l’autorità in genere. Ma sicuramente la cosa più insopportabile di tutte è stata lo sguardo degli uomini, con la loro attitudine invadente, predatoria e violenta, ovunque, in strada, nell’autobus. È stato veramente logorante per me che volevo essere libera, dover stare sempre attenta a come ci si veste, a come ci si comporta, a dove si cammina (ho imparato a portare vestiti di ricambio, nel caso volessi tornare a casa prima dei miei amici; conoscevo a memoria tutte le case dei giudici nel mio quartiere, con la volante della polizia davanti, per potermi rifugiare quando uscivo in motorino e venivo seguita da uomini con la macchina).
A mio avviso il modello binario arcaico e gli stereotipi di genere, che sono inflitti ai bambini attraverso un’educazione retrograda e bigotta sono all’origine di molta violenza e anche la causa di grande incomprensione fra i sessi. Il resto del danno è fatto sicuramente dalla religione cattolica e dall’inaccettabile potere che essa esercita sulle mentalità e sullo stato in generale. La cosa per me più scioccante è che nonostante il ruolo discriminante al quale sono relegate le donne, la maggior parte reagisce con rassegnazione o l’indifferenza o ancora peggio riproducendo i valori di tale cultura nell’educazione dei figli.
A 18 anni, mi sono trasferita a Parigi, per seguire un giovane pianista francese, che avevo incontrato alla scuola di musica popolare di Testaccio, di Giovanna Marini, uno dei pochi luoghi di Roma per cui conservo un amore profondo. C. mi cantava le canzoni di Serge Gainsburg a la chitarra, era intelligente, colto e sensibile, e quando ho conosciuto i suoi genitori, mi sono fatta adottare. Noi due, più che essere una coppia, eravamo come due bambini che giocavano a fare gli adulti. Siamo cresciuti insieme per 8 anni, in coppia ma senza mai compromettere la nostra libertà, eravamo quasi sovversivi considerando la nostra giovane età: la curiosità ha sempre vinto sulla monogamia, e la sincerità quasi sempre sulla gelosia.
Devo moltissimo ai miei “beaux-parents“ (in francese “bei genitori“, molto più carino di “suoceri“) perché è grazie al loro esempio e a quello che ci hanno trasmesso che sono diventata quello che sono. Erano due filosofi ed hanno condiviso con noi il loro sapere, le loro passioni, ci hanno inspirato l’amore per la letteratura, la filosofia, la musica, l’arte e non ci hanno nascosto le loro contraddizioni, i loro questionamenti, le loro paure e le loro delusioni. Attraverso di loro ho amato tutto della cultura francese, e mi sono finalmente sentita a casa. I miei gusti, le mie scelte, anche le mie nevrosi sono francesi.
Parigi è la mia casa emotiva.
E Berlino è l’amante, con la quale ho tradito Parigi, quando la città ha cominciato a perdere molto della sua libertà, per diventare troppo elitaria e l’atmosfera generale troppo violenta.
Berlino è anche dove ho trovato la mia gente. È il posto dove ho incontrato il maggior numero di persone che condividono i miei valori, ed è una sensazione bellissima, è la sola città al mondo dove mi sembra che la minoranza sia la maggioranza!
2 – Non riesco a ingabbiare i tuoi film (LE BEL ANIMAL; VIVRE BERLIN; BERLIN-SARAJEVO; PARIS LA NUIT) in un genere predefinito (documentario, post porno, autobiografico…) è un effetto voluto? Cosa ha ispirato la loro realizzazione?
Ognuno dei miei film ha avuto un percorso di creazione molto particolare, che lo rende, in effetti molto diverso dagli altri.
“Le bel animale“ è nato dal desiderio di mostrare ad un pubblico più ampio la magia del “festival Xplore“. Xplore è un festival di 3 giorni, sulla sessualità creativa, la coscienza del corpo, la danza, il BDSM, le arti della scena e i rituali che offre più di 40 laboratori e un symposium di accademici; è stato creato dal ballerino e coreografo Felix Ruckert, e si produce una volta l’anno a Berlino dal 2004.
Nel 2006 ho insegnato per la prima volta al festival e la bellezza e l’intensità delle situazioni alle quali ho assistito mi hanno mosso profondamente, un’emozione molto simile a certi stati provati davanti ad uno spettacolo di teatro o ad un opera d’arte. Quindi, non solo per il valore politico del festival e per un interesse sociologico, ma anche per ragioni estetiche ho deciso di fare un film su Xplore.
Ho riunito un’equipe di registi, cameramen e artisti, con i quali avevo lavorato in precedenza, compreso il mio caro amico Mario Masini, direttore della fotografia leggendario (fra i tanti film della sua carriera, “Padre Padrone“ dei fratelli Taviani). Ho scelto ogni componente dell’equipe proprio per il modo personale che ognuno di loro ha di fare cinema: eravamo in tutto 10 persone con 5 telecamere per filmare tutto il festival. Delle 4 sale di workshop solo una era filmata in permanenza, mentre gli spazi di gioco sono stati ripresi solo per qualche ora, e il tutto è stato annunciato molto in anticipo, cosicché hanno partecipato solo le persone che hanno deciso coscientemente di apparire nel film e che si sono sentite in un certo senso pronte e fiere di difendere il festival e di contribuire alla sua documentazione, offrendo alla camera, senza pudore, le loro esperienze intime.
Il contesto e la preparazione del film sono state un avventura veramente unica, non paragonabile a nessuno dei film che ho girato precedentemente. Per vincere questa sfida contro il tempo, e riuscire a cogliere l’essenza del festival, avendo solo 3 giorni per filmare, abbiamo lavorato senza tregua, ma la magia di quei giorni di lavoro e il risultato delle immagini catturate sono state la migliore ricompensa per lo sforzo fornito da tutti noi.
VIVRE BERLIN è un film di finzione, di cui ho scritto la sceneggiatura e ho anche avuto il grande piacere di lavorare con degli attori straordinari, e sempre con Mario Masini come direttore della fotografia.
È stato un modo di girare più tradizionale, ma altrettanto gratificante.
Ho voluto con questo film, raccontare il rapporto alla sessualità di una giovane donna, attraverso una forma cinematografica piuttosto classica, ma senza escludere delle immagini esplicitamente erotiche.
BERLIN-SARAJEVO è invece un film più sperimentale ed è nato dal desiderio di lavorare con Natasha Davis, un artista inglese-serbo-croata. Insieme ci siamo volute interrogare sul concetto d’identità nazionale, e siamo andate a intervistare a Berlino i cittadini della GDR, e nella ex Jugoslavia, gli abitanti di Sarajevo, per cercare di capire l’esperienza di coloro che contrariamente a noi, sono nati e hanno sempre vissuto nello stesso posto, senza mai traslocare, ma è il loro paese ad essere scomparso e non esistere più.
Abbiamo anche deciso di percorrere la strada fra Berlino e Sarajevo in macchina.
Questo viaggio è stato un’esperienza veramente forte per me che durante le riprese delle interviste, non sono mai riuscita a trattenere le lacrime, in pratica ho passato tutto il mio soggiorno a Sarajevo a piangere. É stato particolarmente violento per me di realizzare come tutti i cittadini di Sarajevo avevano vissuto un contatto quotidiano con la morte, per un tempo cosi esteso (l’assedio della città di Sarajevo è durato 5 anni) e tutti i ricordi che condividevano con noi rispetto alla loro esperienze nel periodo di guerra erano ancora più insopportabili da ascoltare per me, che in quegli stessi anni, vivevo spensierata a Parigi.
PARIS LA NUIT è il mio primo film, e descrive il tempo memorabile in cui il collettivo di artisti viennesi “Gelatin“ si trovava a Parigi per l’istallazione della mostra “la Louvre“ al Museo d’Arte Moderna della città.
Il film ritraccia le settimane precedenti all’apertura della mostra e la sua inaugurazione, seguendo l’incontro fortuito fra una ragazza francese, un giovane artista islandese ed un ragazzo siciliano.
“Paris la Nuit“ è anche il mio ultimo addio alla città di Parigi, giacché ho realizzato il film proprio alcuni mesi prima di trasferirmi definitivamente a Berlino. È un documentario ma anche una finzione, infatti mi è piaciuta l’idea di ispirarmi alla vita reale, a dei personaggi esistenti, per poi creare una realtà distorta.
3 – Esiste un fil rouge che unisce i tuoi progetti video, fotografici, teatrali e di scrittura oppure ti piace che queste forme di espressione restino ben separate?
Se devo definire un legame fra le mie opere, direi: la vita, il corpo, il sesso, l’amore per gli esseri viventi, per l’arte e per la libertà. I miei film sono influenzati dalla vita, dagli incontri, dai miei ideali, dal tentativo di esistere come donna, come madre, come uomo, come artista, come individuo libero.
Ogni esperienza prende una forma d’espressione molto diversa, ma in realtà per me tutto è legato, come lo sono la mia vita e la mia ricerca artistica, non riesco a separare niente, non sono neanche sicura dove finisce il mio corpo e inizia quello degli altri.
A parte “Le bel Animal“ tutti i miei altri film contengono un nome di città nel titolo, perché il posto in cui vivo ha sempre un impatto molto forte e un ruolo centrale sulla mia creatività. Non scelgo mai con leggerezza dove viaggio o dove vivo, ma mi innamoro perdutamente di una città, di una storia, delle strade, dei palazzi, dell’architettura, dello stile di vita e dell’energia di un luogo.
4 – Nella tua biografia scrivi che l’arte e il sesso possono cambiare il mondo. Da cosa deriva questa convinzione?
Quasi cinque anni fa, ho incontrato Felix Ruckert, recandomi nello spazio che lui aveva creato e gestiva a Berlino “Schwelle 7“ per seguire un workshop di danza Contact e Tantra. Il lavoro di Felix, che è poi diventato il mio partner, e compagno di tante avventure lavorative, è una delle opere più rivoluzionarie che io abbia mai incontrato.
Il fatto di integrare il corpo sessuale nella creazione artistica e allo stesso tempo di facilitare la dissoluzione delle identità e lasciare esistere ogni individuo nella sua specificità e libertà credo sia veramente la chiave per raggiungere la pace e la felicità collettiva. Le esperienze che ho vissuto nei workshops a Schwelle7 e durante i festival Xplore, mi hanno confermato che è possibile di vivere nell’armonia, nel rispetto delle differenze, applicando il principio di onestà radicale fra le relazioni, e trasformando la vita, gli incontri, le relazioni in qualcosa di sperimentale e magico.
Viviamo in un mondo ipocrita e violento, dove gli individui sono repressi, isolati e separati da definizioni di identità sempre più frammentarie, spesso le differenze sono usate per creare conflitti fra gruppi diversi, perché individui infelici e separati sono più funzionali al sistema capitalista, consumano di più e si lasciano manipolare meglio. Nonostante la situazione mondiale sia veramente catastrofica, sono convinta che la coscienza collettiva stia crescendo, almeno all’interno di minorità sparse nel mondo e che attraverso la liberazione del corpo e della creatività si possa accedere ad una nuova forma di coscienza collettiva destinata alla creazione di una realtà più giusta per tutti.
5 – Cosa significa per te essere queer, femminista e madre?
Queer è come percepisco la mia identità: non binaria, non femminile, non maschile ma un insieme fluido e variabile di attributi e desideri in continua trasformazione.
Femminista è la mia scelta politica, determinata dalla convinzione radicale e inflessibile dell’eguaglianza fra gli individui, indipendentemente dal loro sesso, cultura, colore della pelle, etc.
Essere madre è la cosa più difficile di tutte (sarei stata capace tutt’al più di essere un buon padre, ma per essere una buona madre ci vuole veramente una forza sovrannaturale).
È un concetto folle quello di generare un essere umano all’interno del proprio corpo per poi metterlo al mondo e accompagnarlo dandogli gli strumenti necessari per vivere. Credo sia una sfida persa in partenza; come diceva Pasolini “la madre e la regina dell’inferno“.
6 – La tua relazione sentimentale è aperta. Il sentimento della gelosia ti è sempre stato estraneo oppure è un aspetto sul quale hai dovuto lavorare?
Nelle mie relazioni ho sempre aspirato alla complicità e alla sincerità assoluta, e ho sempre percepito l’amore innanzitutto come una profonda amicizia e una complicità reciproca. Mi è sempre sembrato essenziale l’idea di poter essere se stessi specialmente con chi si ama di più e di non dover nascondere nessuno dei propri desideri o delle proprie contraddizioni (di cui siamo pieni).
Il mio ideale di compagno/a è colui al quale posso dire senza sforzo “Amore, ti amo, e questa sera vorrei andare via con lei, o con lui e sei il benvenuto/a se ti va di venire con noi, oppure ci ritroviamo domani mattina, ti porto la colazione“.
Il fatto è che la sessualità mi ha sempre appassionato troppo per ridurre il sesso a una relazione monogama e sono sempre stata troppo curiosa per essere veramente gelosa.
Come tutti ho le mie fragilità e il bisogno di essere capita e sostenuta dal mio partner e mi piace la vita a due per il grado d’intimità e profondità che crea, (ho sempre anche amato l’idea di una vita a tre, soprattutto visto che sono bisessuale, ma credo sia più raro che tre persone si innamorino allo stesso tempo e in modo eguale).
Più che poli-amouri mi definisco poli-sessuale, perché m’innamoro molto difficilmente e sono anche abbastanza fusionale con le persone che amo. Al tempo stesso, ho anche molti amici/amanti ai quali sono molto legata, e non c’è una vera e propria gerarchia affettiva, è come se avessi una famiglia molto numerosa; ma c’è sicuramente anche la volontà e il desiderio di costruire e condividere il mio tempo e i miei progetti in priorità con il mio partner e con alcune persone piuttosto di altre.
Purtroppo il nemico numero uno è il tempo: se il tempo fosse infinito, sarebbe diverso, ma visto che non lo è, bisogna fare delle scelte.
Comunque devo dire che non sono mai stata sentimentalmente così felice, come lo sono adesso.
7 – Come mai hai scelto di utilizzare il velo dello pseudonimo per la tua attività artistica?
All’inizio Nehra Stella era il nome che avevo scelto per firmare i film che ho realizzato come regista, differendomi cosi dalle mie esperienze di attrice. Mi piaceva l’idea di avere nomi diversi secondo quello che facevo. Mi piace anche creare confusione, confondermi e scomparire, sono esibizionista e narcisista come tutti gli artisti, ma visto che la cosa alla quale tengo di più è la libertà, mi piace crearmi varie identità e non essere facilmente definibile o rintracciabile.
Poi con il tempo ho iniziato a usare questo pseudonimo per i workshop e le performance legate alla sessualità, anche per proteggere mio figlio, con il quale sono molto aperta rispetto alla mia attività artistica, ma non volevo che fosse obbligato a sapere o a capire cose che non lo riguardano, prima del tempo.
E alla fine ho fatto confusione fra i miei vari nomi, e li uso un po’ tutti a caso, perché non riesco ad essere veramente dissociata, quindi alle volte sono Nehra, alle volte Micha, alle volte qualcos’altro che non ti dirò.
8 – Cosa consiglieresti a una giovane artista che vuole entrare in questo mondo?
Ad una/un giovane artista che vuole entrare in questo mondo direi: resisti, reagisci, esprimiti, divertiti, insisti, non sottometterti, non ascoltare nessuno, non credere a chi ti dice di sapere meglio di te, e non prenderti troppo sul serio, scegli bene i tuoi maestri, godi, scopri, inventa, gioca, gioca con il tuo corpo, esplora il corpo degli altri, scrivi, leggi, pensa, canta, balla, non smettere mai di ballare…
Se avete più di 18 anni e siete interessati a partecipare all’evento Xplore, di cui Nehra è organizzatrice, cliccate su questo link per l’iscrizione, o visitate il sito di Felix per conoscere meglio l’ideatore.
La locandina del film “Paris la Nuit“ è di Nick West e Eugenie Novellati, la foto di Nehra con la camera é di Mario Masini, le restanti foto che accompagnano l’articolo sono di Nehra Stella.