“Re Ferdinando fissava qualcosa di vago e remoto. I grandi occhi grigi cerchiati dai calamai, il volto pingue, pallido, esangue; le labbra ceree, tra i riccioli ispidi e torti della barba folta.
Fissava taciturno la lunga strada percorsa in quell’altro mondo. Lontano.”
Così inizia Manzoni è morto, il nuovo romanzo di Stefano Cortese, nato a Napoli nel 1990 ̶ già autore di Virgilio o la terra del tramonto (Milena, Napoli), L’Osco (Valtrend, Napoli), e La miglior compagnia (Universitas Studiorum, Mantova).
Il protagonista dell’ultima fatica è Stefano Turati, gentiluomo napoletano figlio dell’avvocato Roberto, amico di Alessandro Manzoni, che osserva gli eventi del suo tempo con gli occhi del patriota scettico e del giovane ardimentoso. Dal 1839 al 1873, il romanzo attraversa l’epopea e la caduta del Regno delle Due Sicilie.
- Manzoni è morto è il romanzo che conclude la tua Trilogia del nulla. Su cosa si basa la poetica del progetto? Che significato assume il nulla?
Ricordo che al tempo in cui scrivevo Virgilio o la terra del tramonto, il primo romanzo della Trilogia, feci una passeggiata sul Chiese, un fiume di media portata che scorre fra le provincie di Mantova e Brescia, tra tronchi dilavati e liscissimi, bianchi come ossa preistoriche. Durante la mia passeggiata, alzai a un tratto gli occhi verso l’orizzonte, dove le chiome d’una teoria di alte robinie tagliavano il tramonto color porpora, e vidi un immenso airone sorvolare le cime e per un istante stagliarsi nel sole che moriva. Quello fu per me il sentimento del nulla. Il mio amico e editor Andrea Corona l’ha definito “impermanenza”, lo stato naturale della realtà che mischia e confonde ogni cosa. Hai presente l’immortalità dei fiori di campo, che paiono uguali a loro stessi nel tempo, quasi non ci fosse differenza tra una primavera e l’altra? È la stessa cosa. Il nulla che intendo è la confusione in cui ogni essere finisce e rinasce, nel ciclo incessante del perpetuarsi dell’esistenza e delle energie. In Manzoni è morto è l’amore perpetuo, in cui saremo confusi insieme a tutti coloro che abbiamo odiato e amato nella nostra breve condanna alla luce. Un ritorno all’increato che ci sottragga, finalmente, al dualismo coatto in cui la vita e la società troppo spesso ci stringono e ci costringono.
- Nel romanzo hai inventato un soggiorno di Manzoni a Napoli, come mai questa scelta?
Mi sono preso una grande libertà! Dai miei studi sulla personalità di Alessandro Manzoni, ho dedotto addirittura che lo scrittore non avrebbe mai accettato l’invito del mio protagonista a venire a Napoli. Manzoni era un nevrotico, e stare in mezzo agli altri gli procurava delle crisi. Ho potuto, tuttavia, “violare” questa sua caratteristica proprio grazie al suo lavoro. Nei Promessi sposi, infatti, c’è la celebre scena dell’incontro tra Don Abbondio e il cardinale Borromeo: un pavido e grigio curato di campagna a colloquio con l’arcivescovo di Milano, uno dei più grandi teologi del suo tempo. La liceità di questa visita di Manzoni a Napoli sta proprio nella funzione di Don Lisander come personaggio, più che come figura storica. Manzoni è, nel romanzo, allegoria del suo tempo, che si manifesta senza limiti spaziali quando acconsente a visitare quel meridione sconosciuto a molti lombardi e piemontesi del tempo, che credevano simile al Nord Africa, con tanto di palme e datteri. Lo scrittore giunge a Napoli a far presagire l’Unità e, al contempo, la fine di un mondo. È nella sua figura che si condensa e riassume il XIX secolo.
- Un romanzo storico di quasi 400 pagine: come si fa a renderlo appetibile per le lettrici e i lettori contemporanee/i? E per le case editrici?
Devo dire che la ricezione dei romanzi storici, a differenza di quanto si immagini, non è così complicata da parte del pubblico, né delle case editrici. Il romanzo storico è quello che, forse, si avvicina di più all’idea classica di romanzo, alla maniera di Tolstoj, per intenderci, o di Victor Hugo. Sollecita nel pubblico una curiosità che rimanda a un immaginario assodato. Certo, bisogna saper rendere appetibile la storia. Con Manzoni è morto è stato più semplice che con gli altri capitoli della Trilogia. Le tematiche trattate, la Spedizione dei Mille e la caduta del Regno delle Due Sicilie, pare suscitino interesse nei lettori, soprattutto, suppongo, per le diatribe sul revisionismo, assai di moda negli ultimi anni. Tutto, immagino, sta nel come si racconta, saper sollecitare le giuste corde, e questo vale tanto per il lettore, quanto per l’editore. Un romanzo di 400 pagine, allora, non diventa più un’ordalia noiosa e insuperabile, ma un’esperienza immersiva nei gangli d’un mondo e di un’epoca, che necessariamente dovrà dilungarsi per essere puntuale, accattivante e, dunque, verosimile.
- Quali sono le principali differenze e similitudini tra l’800 e i nostri (contaminati) giorni riguardo al sentimento di patriottismo?
L’Ottocento è stato il secolo che ha avuto più necessità di patriottismo. Consideriamo l’Italia preunitaria: un coacervo di realtà politiche diverse, minuscole, oppresse in gran parte da potenze straniere o, come nel caso del Regno delle Due Sicilie, da regimi assolutistici. In un quadro così sconfortante, con l’avvento dell’Imperialismo che avrebbe trasformato le nazioni sorte dalle guerre napoleoniche in imperi pronti a mutare il resto del mondo in colonie da spolpare, la prospettiva della divisione era effettivamente letale. Ecco da dove nasce la necessità del patriottismo, dal bisogno di costruire una nazione il più coesa possibile affinché il Progresso non ci trovasse impreparati, rendendoci facili prede di qualche avventuriero pronto a fare anche di noi una colonia. Al tempo della quarantena, su quei balconi, tra le quattro mura, abbiamo forse ritrovato una stilla di quell’antico patriottismo. È bastato sbandierare il tricolore, cantare l’inno di Mameli e strillare “Andrà tutto bene!”. Però, cosa resta in definitiva? Lo dico con Striano: il resto di niente. L’Unità è stata e resta un’illusione necessaria, ma finché gli italiani non saranno pronti a fare un salto di lungimiranza, a interiorizzare e comprendere la loro fondamentale uguaglianza, così evidente in negativo, sarà impossibile rendere questa illusione una verità, quella verità così pura che abbiamo pur sentito palpabile nelle ore più cupe della nostra coazione. Patriottismo è amore d’una terra e d’una idea: d’entrambi ne abbiamo tante, diverse, bellissime. Basterebbe solo smettere di giudicare e imparare a conoscerle.
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