Il 2020 a tratti mi è sembrato uno sprint e in altri un’infinita attesa.
Sono felice di concluderlo con questo articolo dedicato all’intervista di una autrice contemporanea che seguo da tempo (qui l’intervista realizzata all’uscita del primo romanzo Le dee del miele). Si chiama Emma Fenu e anche se oggi vive felicemente a Copenhagen, ha celebrato il rapporto profondo con le sue radici sarde. Il cuore della Sardegna nel 1911 è, infatti, il palcoscenico del suo nuovo progetto editoriale: Le spose della luna, pubblicato da Literay Romance.
Cosa ti lega alla luna e alla sua simbologia?
È una lunga storia.
Ho iniziato a interessarmi, con entusiasmo, alla tesi di Laurea circa un anno prima di terminare gli esami del corso di Lettere e Filosofia. Avevo scelto, d’istinto e per passione, un primo tema: “La luna nell’iconografia dal Medioevo al Barocco”. Il mio relatore, bravo, generoso e intellettualmente curioso, accettò la proposta, pur mostrandomi le sue titubanze. Forse aveva un diverso progetto di ricerca da affidarmi. Chissà.
Dopo un paio di mesi, mi ripresentai in studio con un nuovo titolo, una bozza di indice e una manciata di paragrafi; volevo scrivere di Luna ma attraverso le figure di Eva, Maria di Nazareth e Maria Maddalena e, per estensione, quelle di Virgo, Mater e Vidua o Strega: posso cambiare le componenti del triduo, ma il riferimento ultimo è sempre a Lei, a Lei che è falce, cerchio perfetto e nero d’eclissi, a Lei che è capace di rinascere all’infinito, dopo ogni ciclo.
Io sono Donna, ergo la Luna è in me e io sono Luna.
Cosa ha spinto la tua protagonista Franzisca a scegliere “la vita fuori, come un maschio; la vita fra i monti, come una bestia”?
Nel mio romanzo, Le spose della Luna, ho tratto ispirazione dalla storia vera di Paska Devaddis, bandita di Orgosolo, che durante la faida che coinvolse il suo paese, nel cuore montuoso della Sardegna agli inizi del Novecento, fu accusata ingiustamente di omicidio e costretta a darsi alla macchia nei monti per sfuggire all’arresto.
La mia Franzisca non è Paska, ma ne condivide molti aspetti: anche lei deve compiere una scelta non facile e non comune, quella di lasciare il focolare, dove le donne sarde di un tempo erano regine e sacerdotesse, per affrontare un mondo esterno che pare essere solo maschio.
Alle donne apparteneva la forza del racconto che disegna con la farina l’identità; agli uomini la forza del fucile che disegna con il sangue la storia. Franzisca non diventa una virgo virago: si riscopre Dea e Donna nel ventre della montagna.
Nel secondo capitolo del romanzo scrivi: “Chi nasce povero, lo sapeva bene Franzisca, ha due sole alternative: essere pecora, ossia carne da macello e mammelle da spremere; oppure lupo, ossia predone di pascoli, con denti affilati per mordere e zampe veloci per fuggire.” Unendo le questioni di classe con quelle di genere, una donna nata povera che strumenti può utilizzare per vivere da lupa?
Una donna, soprattutto se povera, doveva essere accogliente e consolatrice, eppur coraggiosa, caparbia, forte come il granito, altera come un nuraghe, capace di conoscere le erbe e i formulari antichi, di tramandare i saperi trasmessi nelle generazioni per guarire, prevedere il destino e proteggersi dai vivi e dai morti. Doveva trattare la Vita e la Morte come sorelle e non temerle entrambe. Poiché sono Donne anch’esse.
Religione e riti esoterici sono elementi presenti nel tuo romanzo, quali dinamiche li legano (soprattutto nei piccoli paesi)?
In Sardegna si è sviluppato un forte sincretismo religioso: le antiche pratiche pagane, legate alla magia bianca, sono state assimilate nella dimensione della religione cattolica come preghiere. Cristo, la Vergine Maria e i Santi sono invocati, per esempio, mentre si compie “la medicina dell’occhio”, un antico rito che prevede l’uso di acqua, olio, sale o grano o ossa di animali a scopo apotropaico.
Le donne che si dedicano a riti esoterici non hanno alcuna consapevolezza di tale percorso storico e antropologico; si definiscono devote e partecipano ai culti ufficiali della Chiesa, accostandosi ai sacramenti, senza sentire alcun conflitto interiore.
La situazione cambia per coloro che esercitano la magia nera: fare una “mazzina”, ossia una bambola, ma non solo (le varianti sono molteplici), da trafiggere con gli spilli, è indiscutibilmente un atto contrario alla religione e connesso con le forze del male, identificate nel diavolo.
Un aspetto che mi ha molto colpita ne Le spose della luna è l’equilibrio tra la narrazione della rivalità tra donne e della sorellanza, come si fa ad affrontare questi due luoghi comuni senza cadere nei soliti stereotipi?
È merito delle protagoniste! Sono scappate dalla mia mente nel nero della notte e di quello stesso colore d’inchiostro sono i loro capelli, i loro occhi e i loro scialli di orbace. E nera è una parte della loro anima: sono luce e ombra, sorelle e rivali, guaritrici e assassine, diverse eppure parte di un “noi” sacro, scritto negli uteri di chi le ha generate. Sono Artemide che corre nel bosco per cacciare fiere o far partorire, sono Era dal ventre rigonfio, sono Ecate che viaggia verso il mondo dei morti, circondata da uno stuolo di streghe. Sono la Luna.
Altro elemento che ho trovato molto interessante, è la descrizione del “rispetto” riservato alla figura della “strega” del paese. Non importa quanto piccolo sia un paese, è un soggetto che non manca mai! Come mai assume questa forte autorità?
Erano tempi di scarse nozioni scientifiche e mediche, in cui si moriva dopo un vagito, sia la madre che il bambino, per una febbre, per un’infezione, per un calcio d’asino.
Erano tempi di lavori estremi in montagna, al freddo o sotto il sole cocente, con il rischio di precipitare in un abisso mentre si pascolavano le pecore, di essere assaliti dai banditi o di essere, al contrario, banditi ed essere uccisi dalle forze dell’ordine o dai nemici.
Erano tempi di epidemie, carestie e guerre. (Tempi così lontani?)
Chi poteva essere d’aiuto se non una figura che fosse tramite fra l’umano e il divino, fra la contingenza e l’assoluto e fosse in grado o guarire, ed essere rispettata, o di nuocere, diventando capro espiatorio di ogni disgrazia collettiva, ed essere emarginata e odiata?
Quali sono gli elementi che caratterizzano il matriarcato sardo?
Non pretendo in poche righe di addentrarmi e risolvere la questione relativa al matriarcato sardo, sicuramente atipico perché non prevede la presa di potere palese, fuori dalle mura domestiche, da parte delle donne, ma un loro decidere le sorti impastando il pane, dando forma al destino nell’oscurità della storia. Sicuramente, si può parlare di cultura matrilineare, ossia della trasmissione di antichi saperi di madre in figlia, seguendo il perimetro di un cerchio infinito. Quello della Luna.
Hai scelto una struttura del testo ricorrente, caratterizzata prima da una lettera e poi da una terza persona soggettivata, come mai questa scelta?
Ho immaginato la Sardegna come il palcoscenico di un antico teatro in cui si manifestano sentimenti ancestrali: ho assimilato la poetica di Grazia Deledda. I personaggi femminili, ad ogni inizio capitolo, parlano in prima persona a se stessi o a un pubblico avvolto nel buio, di cui non scorgono il viso ma percepiscono l’emozione. Non sono canne al vento, però, si piegano, si spezzano, sanguinano e poi si rialzano, ancora e ancora, dopo inevitabili eclissi.
La terza persona che racconta la vicenda, come narratore onnisciente, è il vero colpo di scena del romanzo. O forse no.
Quali sono i tuoi nuovi progetti in cantiere?
Ho una storia nella mente, nel cuore, sotto la pelle, dentro le viscere. Ho scelto il titolo, ma non ne ho scritto nemmeno una riga: la lascio crescere in me, respirare la mia aria, danzare con i battiti del mio cuore finché non scalcerà per uscirmi dai polpastrelli, esigendo vita.
Featured image by Kristina Paukshtite – Pexels