Un diario personale redatto nel corso di un anno e mezzo, senza velleità letterarie né un intento di pubblicazione o di condivisione: è questa la radice di In cerca di te, il memoir di Emma Fenu, pubblicato per PubMe – Collana Gli Scrittori della Porta Accanto. L’arco temporale narrativo non è la storia della sua vita, ma solo di una parte di essa: il percorso di aspirante mamma. Con Emma ci conosciamo da tempo, sono una sua lettrice storica (qui i link delle interviste passate) e sono davvero felice di poterla intervistare per questa nuova opera.
MM: Perché hai scelto di pubblicare un diario personale?
EF: Perché sono una tutor di scrittura emotiva e mi sono resa conto di aver applicato su di me gli strumenti che uso per lavoro per una duplice necessità: un atto di condivisione, e quindi metabolizzassimo e di quello che ho vissuto, e la volontà di rompere uno stereotipo.
MM: Quando hai realizzato di voler condividere la tua storia, avevi già in mente una casa editrice di fiducia?
EF: Ho fatto una prima selezione di piccole case editrici e si sono dimostrate tutte disponibili. Ho scelto Gli Scrittori della Porta Accanto perché lavoro con loro: è stata una scelta fatta con serenità sapendo che sono persone di cui mi fido. L’editor è bravissimo, gli altri componenti del team di lavoro sono persone che hanno esperienza, serietà; quindi mi sono sentita di affidargli un testo su cui io non ho lavorato con cesello, ma un flusso di parole.
MM: Un testo su cui non hai lavorato?! Di solito c’è una prima bozza e poi l’editing, scrittura e riscrittura: in questa esperienza sei andata proprio d’istinto?
EF: Il mio obiettivo era liberarmi di un peso, di un segreto che a volte teniamo con noi stessi e che è dannoso e nocivo. Dopo aver scritto, nella rilettura si prende un distanziamento che aiuta a elaborare la propria storia con eventuali traumi per poi andare avanti con la consapevolezza del passato. Nel percorso di scrittura emotiva non bisogna rileggere continuamente né correggere il testo. La rilettura l’ho fatta a fine del processo, ma non sono intervenuta minimamente su quanto avevo scritto perché non avrei descritto le stesse cose a mente fredda, avrei perso quello stato emozionale molto forte. Inoltre, ci sono all’interno del testo delle lettere scritte per qualcuno in particolare, ma che io non avevo nessuna intenzione di inviare veramente. Queste persone hanno letto e hanno dato il loro benestare per la pubblicazione. Ad esempio, ho scritto una lettera a mia sorella su cose che mai pensavo le avrei detto: quelle verità un po’ scomode che sicuramente cimentano un rapporto ma sono considerate anche sconvenienti. D’altra parte, l’essenza di tanti rapporti sta nella loro complessità: non c’è solo luce, c’è anche tanta ombra.
MM: A proposito degli stereotipi che vuoi distruggere in questo testo, quali sono?
EF: Il primo stereotipo è legato al fatto che in molti pensano che chi ricorre alla fecondazione assistita sia fondamentalmente contrario all’adozione o che non la ritenga una vera esperienza di maternità. Nel mio caso ho dovuto escludere l’adozione per motivi personali (il lavoro di mio marito comporta da parte nostra continui trasferimenti e ciò rende difficile avviare il processo di adozione). Ho deciso di intraprendere la fecondazione assistita ma senza nessuna negazione dell’adozione, senza ritenere che un figlio di pancia renda più o meno madre. Il secondo pregiudizio è legato alla concezione che non essere madre mi renda meno donna o meno completa o meno materna, ossia meno capace di accogliere e di essere fertile nel dare vita a qualcuno o a qualcosa
MM: Come hanno reagito le persone a te vicine a questa esperienza?
EF: Ho incontrato alcune persone che hanno, senza cattiveria, detto delle frasi che si sentono continuamente, ma che in realtà sono o poco delicate o sessiste. Si comincia con un semplice: “hai più di 30 anni, non lo vuoi un figlio? Guarda che poi è tardi, eh.”, per arrivare a un: “I figli non vi arrivano, ma avete provato ad andare da un ginecologo?”. E man mano che il tempo passa, le persone cominciano a fare domande sempre più incessanti. “Hai provato ad andare da questo medico? Hai provato a tenere le gambe alzate dopo un rapporto sessuale? Perché non adotti? Lo sai che ti può venire un tumore con la fecondazione assistita?” Io condivido molto della mia vita, ma preferirei farlo senza subire un interrogatorio e senza delle domande che mi pongono nella condizione di dovermi giustificare.
MM: Quando hai pensato che fosse giusto iniziare e concludere questo racconto?
EF: Lo scatto non è prettamente legato al percorso di infertilità. Ho fatto due anni e mezzo di psicoterapia perché avevo difficoltà a dormire.Poi è venuto fuori tutto. A un certo punto, però, non sono più riuscita a trovare un senso nella psicoterapia, e mi è stato chiesto di scrivere una lettera. Così ho fatto, l’ho condivisa con la psicoterapeuta e da quel momento ho iniziato a scrivere altre lettere e poi delle pagine di diario. Ho percepito quanto fosse stato terapeutico scrivere quella prima lettera, e quindi ho continuato a scrivere. Quando ho iniziato a pensare che per me il percorso di fecondazione assistita, ossia di ricerca della maternità, fosse terminato (lo penso al 90%, in questo momento), ho preso la decisione di concludere questo libro.È stato il mio modo per mettere un punto per andare a capo, e proseguire.
MM: Le persone a te vicine come hanno accolto questa pubblicazione?
EF: Le relazioni sono state sorprendenti. I protagonisti, oltre a me, sono: mio marito, mio padre, mia madre, mia sorella d’anima, mia nipote bambina . Ho chiesto a tutte e tutti loro di leggere e rileggere prima della pubblicazione. Ho domandato: vuoi cambiare qualcosa? C’è qualche punto che preferisci che sia diverso? Ma sono stati disponibilissimi, devo dire che mio marito si è commosso per quanto si può commuovere un ingegnere maschio! Mia sorella mi ha confessato di non essersi accorta di quando stavo male, di quanto ho sofferto. In realtà quel processo di sofferenza lo devi affrontare da sola, è una cosa interiore in cui gli altri possono darti una mano, ma possono solo essere un sostegno. Ci sono alcune prove per cui veramente ci devi scivolare e poi rialzarti da sola. E poi andare punto a capo e ripartire dal capo… che sei tu.
Le foto pubblicate in questo articolo sono state scattate da Francesca Cosso.